A Roma e in tutto l'agro romano, ivi comprese le ridenti cittadine dei Castelli Romani, la cultura gastronomica locale ha una caratteristica inconfondibile: l'estrazione popolare. Una tradizione caratterizzata, perciò da gusti forti e sapori genuini, e soprattutto da piatti all'apparenza semplici che abbisognano, però, di infinita cura e innumerevoli piccoli segreti di preparazione. Più che altrove a Roma (ma, in fondo, in tutto il Lazio) la cucina è fatta di osterie, di ricette preparate con cibi poveri, ma incline alla grande scorpacciata. I sapori del Lazio, in genere, provengono dalle campagne e dagli orti, ma sono influenzati dai prodotti della Capitale. Potrebbe apparire strano che una città come Roma, che ha alle spalle secoli di tradizioni aristocratiche legate alla nobiltà e all'alto clero, non vanti una gastronomia sofisticata e ricercata, negli ingredienti come nella preparazione. In realtà, le ricette “nobili” non uscivano dai palazzi gentilizi. Al contrario! Erano semmai i nobili a uscire dai loro palazzi per immergersi nelle atmosfere fumose ed equivoche delle osterie: l'unico modo per soddisfare il palato con il gusto della cucina popolana. Un fenomeno ben rappresentato anche nel cinema, in pellicole come il ben noto “Marchese del Grillo”, in cui il protagonista (Alberto Sordi) è costretto a vestire umili panni da plebeo per abbuffarsi di costolette di “abbacchio a scottadito”. In particolare, la gastronomia romana nasce dal connubio della cucina ebraica, raffinata, ingegnosa e colta, con quella nata intorno ai mattatoi che hanno come protagonista il "quinto quarto della bestia da macello" (frattaglie, zampe, code, guance e altri scarti). Perseguitati a intervalli dal papato, ma in verità rispettati dal popolo, gli ebrei del ghetto davano lezioni di cucina, con la nobile arte di sfruttare al meglio gli ingredienti e i cibi umili a disposizione (impossibile non citare i celeberrimi “carciofi alla giudìa”). E parlando di frattaglie, l'attenzione ricade ancora sull'abbacchio che, per chi non lo sapesse, non è altro che l'agnello. Non si contano le storiche ricette fondate sull'utilizzo di ogni parte di questo animale. Qui se ne propone una fra le più classiche, che non può restare esclusa dal repertorio delle migliori trattorie tipiche romane: la coratella d'abbacchio con i carciofi. Ingredienti e modalità di preparazione sono proposti di seguito, ma resta inteso che, per apprezzare il gusto più autentico di un piatto come questo, bisognerebbe poter contare su un parente dotato della saggezza e della destrezza culinaria della mitica sora Lella, o perlomeno affidarsi alle cure di un buon oste. La tradizione impone di procurarsi due coratelle d'abbacchio, con cuore fegato e polmoni; del vino bianco secco; un limone; otto carciofi (meglio se dell'agro romano), olio extravergine d'oliva, brodo, sale e pepe. Per la preparazione si procede in questo modo: si tolgono ai carciofi le foglie dure, si tagliano a spicchi e li si immerge in acqua con un po' di succo di limone. Si puliscono e si tagliano a pezzi sottili le coratelle, separando le tre qualità. In una casseruola con olio d'oliva vanno messi i carciofi, salati, pepati e cotti a fuoco moderato aggiungendo, di tanto in tanto, qualche cucchiaio di brodo. In un'altra casseruola, con olio d'oliva, si mette il polmone con un po' di brodo. Dopo un quarto d'ora si aggiunge il cuore e si spruzza con un bicchiere di vino bianco. Si continua la cottura bagnando con altro brodo, se occorre. Dopo un altro quarto d'ora va aggiunto il fegato e, a fine cottura, sale e pepare. Infine si uniscono i carciofi e si lascia cuocere ancora per cinque minuti. Le coratelle vanno servite su un piatto caldo precedentemente spruzzato con il succo di mezzo limone. Buon appetito e... attenti a non ingozzarvi!